17. Grandi lezioni di sapienza

17. Grandi lezioni di sapienza

Erano sempre in aumento i lumi con i quali Dio mi veniva insegnando la scienza immortale, l’unica che non diminuisce la nobile potenza del nostro intelletto creato per conoscere beni imperituri. Vivevo, credo di poterlo dire, nella regione della luce dove le cose si manifestano come sono: basse, piccole, di poco valore, che bisogna lasciare e che finiscono con la morte, e a volte grandi e degne di possedere tutti i nostri affetti e di occupare tutte le nostre energie e talenti, perché aumentano nella nostra anima la grazia di Dio sulla terra e le assicurano il suo eterno amore in cielo.

Morte delle due principesse

Questo era l’unico affanno che avevo: poter giungere al possesso del Bene infinito che con tanta forza attraeva verso di sé la mia anima. Tutto quello che succedeva intorno a me erano i mezzi dei quali il Signore si serviva per aumentare in me la conoscenza del suo sovrano amore ed accenderlo sempre di più nella mia anima.

Accadde in questo tempo la morte delle due principesse: una si trovava nel mio paese, vicino alla mia casa, l’altra in un paese vicino. Quest’ultima era molto pia, piena dello spirito di carità del «Maestro buono»: «Passava facendo del bene a tutti» (cf. At 10, 38). Non c’era nessuno che l’avvicinasse senza ricevere qualche conforto al suo dolore, qualche sollievo e soccorso nelle sue necessità. Era chiamata «madre dei poveri e degli afflitti», perché consolava tutti quelli che l’avvicinavano. Quando morì furono tante le dimostrazioni d’affetto che le fecero al suo funerale, che non sarebbe stato possibile fare di più con la madre più amata. Scuole, asili di poveri, orfani e congregazioni religiose, ciascuna con la sua bandiera e rappresentanza ufficiale, fecero prolungare il corteo funebre varie ore. In verità era una cosa degna da vedersi. Quante lacrime di sincero affetto, gratitudine ed amore cristiano! Quante preghiere fervorose si elevarono al trono di Dio per la sua anima!

Invece, alla morte dell’altra poveretta…, che quadro completamente diverso! Il Signore mi pose questi due libri aperti davanti agli occhi, per farmi vedere cosa sono e cosa valgono le grandezze umane al cadere delle ombre della vita, e come di tutto ciò non resti che il sepolcro: «Et solum mihi superest sepulcrum».22 Allora le umiliazioni e gli annichilimenti della morte restano solo per coloro che si sono serviti delle ricchezze e degli onori più che per soddisfare i loro vani capricci, per correre loro stessi e per portare altri alla perdizione.

Quello che si diceva di questa povera principessa era molto triste e orribile; anche se si crede che alla fine ella si sia confessata. Dobbiamo sperare che il Pastore buono, che diede la vita per le sue pecorelle, non abbia lasciato perdere la pecora smarrita che così a lungo attese e cercò: aveva infatti quasi novant’anni. Dicevano che aveva speso milioni e milioni in vanità peccaminose e che non conosceva la virtù della carità verso i poveri che bussavano alla sua porta, ma giunse anche per lei la sua fine e non le rimase altro che il sepolcro.

Pochi giorni prima che morisse, i parenti che mai si erano avvicinati alla sua casa perché si vergognavano della sua indegna vita, mandarono altre persone da lei, non per lei, ma perché si impossessassero dopo la sua morte di tutte le cose che possedeva. Non lasciò denaro, perché dicevano che aveva soltanto pochi centesimi, se si eccettuavano le suppellettili e i mobili della casa. Di queste cose soltanto si presero a cuore. Di tutto il resto non si occuparono, come se fosse morto un cane: infatti non c’era nemmeno chi volesse portarla a seppellire. La servitù non si preoccupava che di impossessarsi, ciascuno, di quello che poteva. Che funerale fu quello! Oh, fu terribile! Non mi dimenticherò mai di quel triste e lamentevole spettacolo. Io non credo che arrivassero a 28 le persone che l’accompagnavano. Gli uomini facevano resistenza a portare il feretro e dovette obbligarli il signor parroco. Giunti al cimitero la lasciarono nella cappella, senza che nessuno, né parenti né amici, si interessassero di lei. Rimase sola e solamente le rimase il sepolcro. Solo alcune persone andarono a vederla. Vi andai anch’io, perché tutto quello che santamente impressionava e poteva far del bene allo spirito lo cercavo sempre.

Nel vedere questo, ero come costretta a meditare sopra la morte, la vanità delle ricchezze e come alla fine il mondo tratta i suoi. Portava un vecchio vestito di seta nero e una catenina d’oro al collo, ultimo resto delle sue vanità. Questa catenina, dicevano, se la sarebbe presa chi l’avesse seppellita, poiché non ci sarebbe stato chi lo pagasse. Le sue fattezze, che tanti sguardi vani avevano attirato, si presentavano così brutte, ripugnanti e orribili, che spaventavano al vederle. Oh, come è vero che «vana est pulchritudo».23 Vanità della bellezza in questa principessa, mentre alla morte dell’altra, che abbiamo ricordato prima, si doveva dire: «Mulier timens Dominum ipsa laudabitur».24

Meditazioni in cimitero

Un altro strumento per mezzo del quale appresi grandi lezioni, che si fissarono nella mia giovane mente e che mai si cancelleranno, erano i luoghi dove a volte ero solita andare con mia sorella e le mie cugine, non tanto per passeggiare e fare esercizio, quanto per allontanarmi dalle vanità e dalle dissipazioni mondane. Di solito la domenica andavamo a fare una visita al cimitero e ci trattenevamo lì a volte anche mezz’ora, a contemplare quelle fredde lapidi che ci ricordavano persone conosciute, la loro grandezza, le loro grazie e il loro potere, tutto ridotto a nulla e alle umiliazioni del sepolcro.

Lì stava il mio caro babbo. Durante il tempo della sua lunga malattia, quando era inchiodato a letto soffrendo e penando, i giorni ci sembravano tanto tristi e tanto lunghi, tanto dolorosa la nostra situazione, che non terminava mai; invece ora era tutto come se non fosse successo…

Stavano lì i miei nonni, i miei parenti e molte persone care. Ricordavamo le loro parole, le loro opere, i loro buoni esempi lasciati. Ma, che tristezza, se non li avessimo avuti! Lì c’era anche la mia amichetta d’infanzia Anna Mei, fiore caduto ancora in boccio che adornava già da molti anni i giardini del cielo. Sembrava soltanto ieri quando correvamo per i prati come due farfalle in cerca dei fiori… Era caduta nel fiore della giovinezza, era della nostra età, si trovava nel fiorire dell’amore. Sembrava che ci dicesse dal sepolcro, specialmente ad Ada, per colei alla quale tante lacrime era costato il suo amore: «Cercate un altro amante, amate chi neppure la morte vi può togliere; vedete, guardate e pensate «quid est super sepulcrum».25

Quante riflessioni e risoluzioni generose eravamo solite prendere davanti a quella polvere e cenere a cui si riducono le grandezze della vita! Dopo aver pregato per il riposo eterno di queste persone che ci avevano preceduto verso l’eternità e dove presto le avremmo seguite, solevamo ripetere questi versi:

Ecco dove finisce ogni grandezza,

Ogni pompa di terra, ogni bellezza:

Terra, loto, vil fango e poca arena

Chiudono al fin di ogniun la breve scena.

Visita a luoghi di beneficenza

Qualche altra volta andavamo all’ospizio o al ricovero per anziani. Che impressione al vedere le grandi sale degli ammalati! In mezzo a tanti dolori non avevano altra consolazione che quella che davano loro la fede, la religione, il Crocifisso, se avevano la fortuna di averlo e di guardarlo con amore, e Maria santissima, Madre degli afflitti, se erano devoti a Lei. Nelle loro lunghe ore di solitudine e di dolore l’unico rimedio e sollievo alle loro sofferenze erano Gesù e Maria, i due amici fedeli per i momenti di dolore.

Poche sono le persone che si avvicinano al letto degli ammalati, quasi tutti fuggono il luogo del dolore e si allontanano da quelli che soffrono. Quando andavamo al padiglione dei tisici, le infermiere e le suore ci dicevano che quella sala solitamente si riempiva sempre di gioventù, come lì vedevamo, soprattutto dopo il carnevale. Aggiungevano che il becchino aveva ancora molte fosse preparate, perché di esse c’era in quel periodo più bisogno che in qualsiasi altro tempo dell’anno. Quanta gioventù, commentavano, perde la vita per le pazzie, per i balli, per i veglioni, in questo tempo di peccato! Udendo ciò, saremmo state capaci noi di non aver paura di dare la vita, se fosse necessario, con le penitenze e le mortificazioni di un convento? Sarebbero stati più disposti a perderla gli amanti del mondo per offendere Dio e condannarsi, che noi per essere gradite a Lui e salvare le nostre anime?

Un altro enorme quadro di miseria umana, quando non si ha Dio, lo si vedeva nel ricovero per anziani. Era penoso e terribile vedere quelle centinaia di vecchietti che stavano sulla soglia dell’eternità, non avevano infatti più né forza né energia per nulla, e pensare che avevano le ore della loro vita contate, che stavano per concludere il loro viaggio in questo mondo, che arrivavano già al suo termine, quel termine che li doveva condurre a una eternità di felicità o di dolore… Oh, come ci spingevano queste riflessioni ad approfittare bene del tempo che ci dava ancora il Signore, perché ora possiamo facilmente lavorare e non dobbiamo attendere il tempo in cui le forze vengono meno, la volontà è indebolita e il cuore raffreddato!…

Vanità degli uomini

A volte andavo ad accompagnare i signori che stavano nella mia casa a fare escursioni e piccoli viaggi di ricreazione e di passatempo. Ora però non vi sentivo molta voglia, né ciò mi attirava come nei tempi della mia fanciullezza, quando quelle cose mi entusiasmavano tanto. Le cose mi sembravano tutte cambiate —in realtà era Gesù che mi aveva cambiato il cuore—. Al vedere i palazzi, i monumenti antichi, i giardini mi venivano in mente le persone, che un giorno avevano goduto lì piaceri che erano passati per non tornar mai più e talvolta con danno delle proprie anime: non so quello che sentivo!

Ricordo quello che si ammirava in uno di questi palazzi antichi. Era dotato sia all’interno che all’esterno di scale. All’esterno la casa era tutta ombreggiata da pergolati, con fiori ed alberelli, così ben disposta che sembrava fatta da mani di angeli. Dentro era decorata con tappezzerie, pitture, antichità, stucchi. C’era una sala da gioco, una sala da bagno, un refettorio per l’inverno e uno per l’estate. Aveva tutto quello che si può desiderare per trascorrere una vita felice, se la felicità si potesse incontrare su questa terra… Nel giardino, si potevano trascorrere ore ammirando la varietà dei fiori molto ben disposti, gli alberi, le fontane, il parco, il luogo del gioco, il lago con la barca per andarvi a passeggio; sentieri ombreggiati e nascosti tutti con piante ad arco che simulavano gallerie; colonne altissime tutte coperte e ornate di fiori. Monumenti e statue ricordavano persone care, episodi e fatti di famiglia; c’erano persino cinque o sei monumenti di marmo dedicati a cani posseduti dagli antenati…. Che pazzia! Che vanità! Quanta compassione mi faceva tutto quello che costituisce oggetto di invidia per tanti poveri ciechi! Davanti ai miei occhi tutte queste apparivano come cose indegne di occupare il cuore di un uomo, creato per amare Dio. Mi sembrava di udire mille voci nel fondo dell’anima che mi dicevano: Beni materiali, beni passeggeri, non bastano ad un anima immortale!

Come per completare il quadro e confermarci maggiormente della vanità delle cose che avevamo appena terminato di contemplare, mentre noi ce ne andavamo, arrivò una lussuosa carrozza con una signora vestita a lutto che portava scritto sulla fronte il dolore e una signorina sua figlia di circa 15 anni, pallida, magra, senza colori, si capiva che era ammalata, perché nello scendere dalla vettura era sostenuta e accompagnata da una cameriera. Erano per quelle due persone tutte le bellezze e le comodità che avevamo appena visto!… Ogni giorno più sentivo voglia di chiudermi presto nel convento per non vedere tanta cecità. Desideravo fuggire il pericolo di restare avvolta in quelle tenebre, nelle quali vivono tanti infelici nel mondo e poter contemplare, dentro le pareti di una povera cella, le sicure e consolanti verità del cielo promesse a coloro che lasciano tutto per amore di Dio…

Esempio di un taglialegna

Un altro libro che mi offrì grandi lezioni e che non posso lasciare di aprire per raccontare quello che mi insegnava, perché mi offrì un’idea viva della bontà e della misericordia del nostro Padre celeste, fu dato da un povero tagliaboschi, che passava più volte al giorno davanti a casa mia.

Era padre di una famiglia numerosa e non seppe insegnare ai suoi figli altro compito per guadagnarsi il pane che il suo stesso e rude lavoro. Dopo aver tagliato fin dal mattino presto la legna, ne facevano fasci e dal bosco li portavano a spalla a un forno di mattoni che c’era in paese. Andavano con lui tre o quattro figli, ciascuno con un fascio proporzionato all’età, alla forza e alla statura di ciascuno. Il maggiore doveva avere intorno ai quindici anni e il minore circa sei o sette anni. Davanti camminava il padre con un fascio grandissimo. Per sé, lo si vedeva bene, caricava il più possibile, senza fare attenzione né al peso né alla lunghezza; invece, per i figli, come veniva ben misurato tutto! I fasci andavano diminuendo di peso e di dimensioni in maniera proporzionata a partire dal primo fino all’ultimo. Formavano una processione di quattro o cinque e l’ultimo portava un piccolo fascio. Quanta tenerezza e commozione mi faceva quella scena, vista come io la guardavo, cioè pensando che lo stesso fa Dio con noi, suoi figli. Con quale attenzione e amore misura le fatiche e i dolori della vita prima di dividerli e mettere alla prova con essi le anime che lui particolarmente ama!


22 Cf. Gb 17, 1: «Non c’è per me che la tomba!».

23 Cf. Pr 31, 30: «Vana è la bellezza».

24Cf. Pr 31, 30: «La donna che teme Dio è da lodare».

25 «Che cosa c’è sopra la tomba».