Libro Quinto – Nostro Fratello

NOSTRO FRATELLO[1]*

Perché Egli sia il primogenito tra molti fratelli” (cf. Rm 8, 29)

E’ certo che l’amore tende all’uguaglianza e all’unione, e che quanto maggiore è quell’amore tanto maggior potere esso ha per conseguire le due cose e vincere le difficoltà che ad esse si oppongono. E poiché non c’è stato né ci sarà nessun amore più forte di quello che Dio ha per noi (malgrado la distanza infinita che ci separava per il peccato), l’amore lo obbligò a mettersi al nostro livello facendosi come uno di noi, e a unirsi, nel modo come esige un così grande amore, alle nostre povere anime.

Questa proprietà dell’amore la sentiva anche l’anima umana, simboleggiata nella Sposa dei Cantici, la quale, non potendo elevarsi all’ altezza dove risiedeva l’Amante divino, pazza di amore, e come chi non sa che cosa dice, con i suoi insensati sospiri lo invitava ad abbassarsi fino a lei, per formare quella indispensabile uguaglianza richiesta dall’amore. “Chi mi darebbe, ripete, che tu fossi fratello mio, succhiando allo stesso petto di mia madre, perché io ti trovassi fuori – fuori dal tuo alto cielo – e ti baciassi, senza che nessuno per questo mi disprezzasse?” (cf. Ct 8, 1).

l’amore è unitivo. Dice San Tommaso 91 bis che questo era il desiderio o la voce della Chiesa prima della venuta di Gesù Cristo: giungere a vedere fatto uomo Colui che stava nel seno del Padre, così da poter ognuno di noi chiamarlo fratello mio. “Sta parlando la Chiesa, che ha preceduto l’avvento di Cristo, da noi chiamata Sinagoga, cioè assemblea. Dice: Chi mi consentirà di poterti trattare in qualità di fratello, allattato alle mammelle di mia madre? Ed il senso è: chi mi concederà che tu, che ora sei nel seno del Padre, divenga uomo e, compartecipe e consorte della mia medesima natura, venga chiamato mio fratello?”(cf. in Cant. 1).

Di fronte a questo ardente desiderio dell’anima amante, scende dalle altezze, ferito d’amore, Colui che nessuno poté vincere in bontà; e, pronto a soddisfare i desideri dell’anima che già lo ha conquistato, le risponde chiamandola col nome che essa amava, sorella. “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore” (cf. Ct 4, 9).

L’amore ha conseguito ciò che gli corrisponde: l’uguaglianza e l’unione. La prima parola: sorella, esprime uguaglianza; la seconda: sposa, denota unione. Oh, la distanza infinita che ha superato l’Amore! Eccolo come nostro fratello lasciare la sede regale del seno del suo divin Padre, per venire nella nostra casa a mangiare con noi il pane del dolore.

La storia umana di tutti gli uomini è compresa in queste tre parole: nacque, pianse, morì.

Le stesse parole, in tutto il loro senso, si potranno applicare anche al Figlio di Dio fatto uomo, perché realmente Gesù nacque, cioè si sottomise a tutte le miserie e debolezze della nascita. Ebbe una madre come tutti noi l’abbiamo. “Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (cf. Lc 2, 6-7), né più né meno di come fanno le madri con i loro bambini. Come tutti, ebbe bisogno di Lei, si nutrì del suo latte, crebbe fra le sue braccia che lo sostennero mentre imparava a dare i primi passi e a sostenersi sui suoi piedi.

Gesù scoppiò in pianto” (cf. Gv 11, 35). Sì, pianse, nel senso letterale della parola, che esprime il dolore e ogni tipo di dolori. In effetti Gesù soffrì tutti i dolori che hanno afflitto e affliggono l’umanità. Dai suoi occhi divini caddero lacrime. Pianse come noi piangiamo e per gli stessi motivi: di dolore e di amore. Pianse di dolore sull’ingrata Gerusalemme (cf. Lc 19, 41), e pianse di amore per la morte del suo amico Lazzaro (cf. Gv 11, 35), come lo attestarono coloro che lo videro piangere: “Vedi come lo amava!” (cf. Gv 11, 36).

la sua morte rende meno penosa la nostra. Gesù è quindi nostro fratello nella nascita, nel dolore, e, per ultimo, nella morte. Perché morì come tutti moriamo; e morì con tutta l’amarezza, gli abbandoni e le strazianti angustie e tristezze degli agonizzanti, tanto nella sua benedettissima anima quanto nel suo benedettissimo corpo. Sì, Gesù morì come tutti moriamo. Il suo divin volto, giunto all’agonia, impallidì passando allo stato agonico che precede la morte. I suoi occhi, fonte di purissima luce, si chiusero e si spensero, perdendo il loro splendore. La sua bocca ammutolì, la respirazione si fece sempre più affannosa, finché alla fine il suo Cuore cessò di battere, chinò il capo e spirò: “E, chinato il capo, spirò” (cf. Gv 19, 30). La sua anima si separò dal corpo… Un giorno arriverà anche per noi quell’ora, la più dolorosa e terribile di tutte, ora di forzata separazione, ora il cui solo ricordo fa rabbrividire la nostra povera umanità…, ma che sarebbe se non ci fosse passato prima, con tutti i dolori e le conseguenze che l’accompagnano, il nostro fratello maggiore Gesù Cristo? Quanti uomini si sarebbero disperati dovendo sottomettersi irrimediabilmente a quella dolorosa sentenza, se non avessero visto morire su una Croce, fra indicibili tormenti, il Figlio di Dio fatto nostro fratello!

Tutto era evidente agli occhi divini. Tutto sapeva il Signore, e il suo amore lo indusse a caricare sulle sue carni innocenti l’inesorabile peso del dolore che la sua giustizia si vide obbligata a caricare sull’uomo peccatore. Dopo di questo, a chi sembrerà troppo amara la vita, eccessivamente pungenti le spine che trova nel suo passaggio su questa terra? C’è forse qualche amarezza che non abbia provata Gesù, o qualche spina che non abbia ferito per prima le sue carni innocenti? C’è un dolore o una morte che non abbia sofferti Gesù? Nella sua morte, Egli sperimentò tutte le morti, e soffrì tutti i dolori che le accompagnano, per farci coraggio e dar valore ai nostri dolori e per unire a queste sofferenze, dopo essere stato in contatto con Lui, una virtù santificatrice e consolatrice, che è bastata e ha sovrabbondato per santificare tante anime e farle ripetere in mezzo ai loro dolori, e anche prima della morte: “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione”, come diceva S. Paolo Apostolo (cf. 2 Cor 7, 4).

si umiliò per amor nostro. Com’è possibile non amare Colui per il quale ci vennero tanti beni? Chi non ama un Dio, il cui amore lo indusse a farsi uguale a noi in tutte le miserie della nostra umanità, eccetto il peccato, è perché non lo conosce; e chi lo ama poco è perché lo conosce poco. Il pensare che Gesù sentiva nella sua carne santissima ciò che noi sentiamo, e che a questi eccessi di sofferenza lo ha indotto il suo immenso amore per noi, ci dovrebbe riempire il cuore di un’immensa gratitudine. Per questo, ci dovremmo sempre compiacere, in modo particolare, nel considerare Gesù nei momenti in cui più si manifesta uomo, soggetto alle miserie e debolezze della nostra umanità. Per questo, la Sposa Sacra desiderava vederlo “allattato al seno di mia madre” (cf. Ct 8, 1). Che cosa c’è di più debole di un bambino, che deve essere allattato da una creatura anch’essa debole e misera? Molto chiede l’amore… per far giungere a Dio a questi estremi… Ma non temere, anima innamorata, non temere mai di chiedere troppo. Dio soddisferà pienamente tutti i desideri del tuo audace amore. Vedrai Colui che ami fatto bambino, tuo fratellino, perché tu possa baciarlo senza timore, come un fratello, e dire a tutti quelli che disprezzano le tue ansie come vaneggiamenti e pazzie irrealizzabili: “Guardatelo, è là fra le braccia di Maria, sua madre e madre mia. E’ mio fratello. L’ho chiamato ed è venuto. L’ho desiderato e l’ho visto così come l’avevo desiderato”. A quali estremi arriva la pazzia dell’amore divino. L’Eterno, il Creatore fatto bambino! Gesù Bambino! Gesù adolescente! Due età per le quali anche noi passiamo, favoriti dalla tenerezza e dall’amore di tutti!

E, poi, quel chiudersi per tanti anni in un rigoroso silenzio, nell’umile casa di Nazaret. Che cosa fece lì Gesù, nostro fratello? Ciò che abbiamo fatto noi, né più né meno, prima di lasciare la casa paterna. Due compendiose indicazioni dell’Evangelista san Luca lo dimostrano chiaramente e ci fanno vedere per un istante, non senza una pia emozione, l’anima del divino Infante: egli ubbidiva ai suoi genitori e “stava loro sottomesso” (cf. Lc 2, 51). E’ quello stesso che fanno e devono fare tutti i figli: obbedire ai propri genitori. E poi aggiunge: “Gesù cresceva in sapienza, età e in grazia” (cf. Lc 2, 52), e gli occhi dei suoi fortunati genitori contemplavano ammirati le diverse fasi del suo sviluppo fisico.

Quanti misteri di amore in così poche parole! Che ritratto ideale del bambino e dell’adolescente divino!

si sottomise allo sviluppo umano. A misura che cresceva in età, insieme al suo sviluppo fisico, andava progredendo anche in sapienza. Non nella sapienza divina che possedeva da tutta l’eternità, né nella sapienza infusa che gli era stata comunicata fin dal momento della sua Incarnazione, ma nella sapienza umana e sperimentale che si va acquistando con l’esercizio dei sensi e delle facoltà conoscitive, adattandosi anche all’età nella manifestazione di quell’altra sapienza infusa che, fin da principio, tesoreggiava, in modo perfettissimo, nella sua intelligenza.

Il Figlio di Dio Bambino andava manifestando progressivamente tutte le perfezioni che convenivano alla sua età; pertanto, a 10 o 12 anni dovette mostrare più intelligenza e sapienza che a 5 o 6 anni. Così che poteva confrontarsi con un altro bambino intelligente e buono della sua età, e sembrargli come fratello gemello. Tutto ciò che c’era di più in questa somiglianza apparente ed esteriore, Gesù lo nascondeva. Si può così dire in verità che il Figlio di Dio, facendosi uomo, si degnò di sottomettersi, anche riguardo all’intelligenza, alle condizioni ordinarie dello sviluppo umano.

La crescita di Gesù è pertanto intellettuale e fisica; ed entrambe andavano di pari passo: cresceva in sapienza e in statura. Anche prima di farsi uomo, Egli conosceva perfettamente l’uomo, sua creatura; ma non aveva né poteva avere la scienza sperimentale della vita e delle virtù umane. Questa conoscenza Egli l’acquistò nell’esercizio progressivo delle virtù, nella stanchezza e nella fatica del corpo, nel lavoro e nel dolore. Accanto a Maria e a Giuseppe, cominciò a formarsi nell’obbedienza, “e stava loro sottomesso” (cf. Lc 2, 51).

Come un novizio che si addestra alle virtù, e si prepara mediante la pratica di queste a lavorare nel campo del Padre celeste, così si preparò Gesù negli anni che visse a Nazaret.

Al termine del suo noviziato, il Missionario celeste va ad evangelizzare i popoli, dove l’obbedienza, o volontà di Dio, lo destina. La preparazione per il suo ministero fu la stessa che poi esigeva dai suoi apostoli. Non si sottrae a nulla, perché è suo fratello, e come tale, si sottomette alla medesima sorte. Si sottomise finanche all’umiliantissima condizione di apparire peccatore. Va in cerca di S. Giovanni e gli chiede di essere battezzato: “Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui” (cf. Mt 3, 13). S’inginocchia, come colpevole, davanti a lui, e gli chiede di essere battezzato. Ammirato e confuso, il Battista è titubante nel compiere quell’atto, ma Gesù fa cadere ogni perplessità dal suo spirito, dicendogli: “Conviene che così adempiamo ogni giustizia” (cf. Mt 3, 15).

Signore, che strana giustizia è quella? Tu, innocente, che non conosci peccato, sei trattato come peccatore? Ha ragione il tuo precursore nel rifiutare di battezzarti. Ma non ha del tutto ragione, perché, dal momento che Gesù si fece nostro fratello, si obbligò, o volle obbligarsi, a passare attraverso tutte le infermità umane e a sperimentare tutte le nostre debolezze e fragilità, eccetto il peccato.

sacrificando tutto, tutto patì. Per adempiere la sua vocazione di Missionario, Gesù dovette, come noi, sacrificare tutto: la casa, la Madre, quella Madre il cui dolce sguardo, il cui tenero amore, non troverà più altrove; la gloria, la ricchezza, il benessere, la felicità terrena… Tutto sacrificò, non cercando altro piacere che quello del dovere amorosamente compiuto. Quando ci chiede simili sacrifici, offriamoglieli generosamente, ricordandoci che Gesù si fece fratello nostro perché noi aspirassimo ad assomigliarci a Lui.

Nel ministero della predicazione, andava insieme con i suoi apostoli, e con essi mancò a volte del necessario, vedendosi costretti un giorno, per calmare la fame, a raccogliere spighe dai campi per dove passavano. Un’altra volta, passando per la Samaria, mandò i suoi apostoli a comprare da mangiare, mentre Lui, stanco del viaggio, si sedette a riposare presso il pozzo di Giacobbe.

Il Santo Vangelo ci assicura chiaramente che Gesù ebbe fame. Un giorno, dice S. Marco, uscendo da Betania, “ebbe fame” (cf. Mc 11, 12), e aggiunge: “E avendo visto di lontano un fico che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se mai vi trovasse qualche cosa” (cf. Mc 11, 13). Ebbe sete e chiese da bere (cf. Gv 4, 7). Ne soffrì in più di un’occasione, e anche poco prima di spirare chiese da bere (cf. Gv 19, 28). Ebbe sonno. Come noi, si mise a dormire e si riposò. Il fatto di addormentarsi nella barca (cf. Mt 8, 24), dimostra che sentì fortemente questa necessità, e dovette dormire profondamente se non bastò a svegliarlo il trambusto e il vociare degli apostoli per la tempesta che minacciava di fare affondare la barca. “Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva” (cf. Mt 8, 24).

gesù, l’amico. Ebbe amici , e li amò molto. Lui stesso disse di Lazzaro: “Il nostro amico Lazzaro” (cf. Gv 11, 11). Lui e le sue due sorelle erano particolarmente amati da Gesù: “Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro” (cf. Gv 11, 5). Il modo familiare con cui i suoi apostoli lo trattavano, dimostra anche che Gesù li riteneva amici, più che servi o discepoli, e Lui stesso così lo manifesta: “Voi siete miei amici… Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici” (cf. Gv 15, 14-15).

Fra gli amici di Gesù ci sono anche i bambini. Gli si avvicinavano, ed Egli se li stringeva al petto per accarrezzarli (cf. Mc 10, 13): gesti naturali che anche noi facciamo con gli innocenti. Gesù è nostro fratello e il suo cuore ha sentimenti di affetto e di tenerezza come noi. Pianse anche di dolore, come noi piangiamo, per la morte di esseri cari: “Gesù scoppiò in pianto” (cf. Gv 11, 35).

Considerando Gesù in quei momenti in cui si manifesta vero uomo e con le nostre debolezze, il nostro cuore si intenerisce e sente una particolare contentezza, perché così ci sembra di sentire Gesù più vicino a noi, come effettivamente è. Con che soddisfazione e piacere diciamo: Gesù sentì ciò che io sento! Ciò che noi sentiamo tutti i giorni e spesso, lo sentì anche Lui: la fame, la sete, il sonno, la stanchezza… e anche nelle nostre tentazioni possiamo guardare a Gesù tentato. Dice apertamente san Paolo: “Proprio per essere stato messo alla prova… è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (cf. Eb 2, 18).

E in questo capitolo, parlando di Nostro Signore, spiega: “Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli. (…) Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (cf. Eb 2, 11.16-18).

Il solo pensiero che Gesù nostro fratello ha lottato e vinto tutte le tentazioni, del mondo e del demonio, per assicurare i nostri trionfi e vittorie, che incoraggiamento e consolazione è per noi, esposti a continue e penose tentazioni! Da che proviene che ci consoli di più considerare le debolezze umane di Nostro Signore che considerare il Dio onnipotente? Le debolezze umane di Gesù ci assicurano e provano che Gesù è della nostra condizione e natura. L’amore vuole l’uguaglianza, e vedendo fatto uguale a noi, con un cuore di Fratello che sente come il nostro, Colui che era separato da una distanza infinita, siamo più sicuri del suo amore. Facciamo in modo che questa sicurezza di essere tanto amati da Dio, provochi e accenda anche e sempre più il nostro amore per Lui!

fratello nostro nella morte. Mancava a Gesù un’ultima prova di uguaglianza con i suoi fratelli: la morte. Tutti gli uomini muoiono e Gesù, vero uomo, morì anche Lui. Anche in questo si assomiglierà a noi. E per essere di conforto a tutti indistintamente in un passaggio tanto amaro e doloroso, sceglierà una morte che compendia e riunisce il dolore di tutte le morti, perché serva a tutti di modello, di esempio e di incoraggiamento.

Gesù morì di puro dolore. La sua santissima umanità cadde sotto il peso del dolore più intenso. Morì giovane, nel fiore degli anni. Morì come un criminale, come un colpevole, nell’umiliazione e nell’abbandono dei suoi più cari, finanche del suo divin Padre. Si lamentò di quell’abbandono e dei suoi dolori. Chiese il refrigerio di un po’ d’acqua. Pensò ai suoi, compatì sua Madre e l’affidò a S. Giovanni perché avesse cura di Lei.

Se consideriamo questi e altri tratti della vita dell’Uomo-Dio, li troviamo uguali a quelli di ogni uomo. Gesù Cristo, sempre Dio, con tutto il suo potere onnipotente, fu anche, dal suo primo ingresso nel mondo, vero uomo, nostro fratello, della nostra natura, perché come noi nacque, visse, soffrì, agonizzò e morì.

Nascita, fatiche, lacrime, vita e morte del mio Gesù: che io vi tenga sempre presenti nei momenti cruciali della mia vita e della mia morte, per compiere la volontà del mio Dio; che io possa compierla come Gesù, mio fratello maggiore, così che abbiano in me il loro compimento le parole che Lui stesso disse in altra occasione, quando, predicando alle folle, gli annunciarono che sua madre e i suoi fratelli erano lì e desideravano vederlo. Ma Egli, indicando quella moltitudine, rispose: “Ecco qui mia madre e i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, quello è mio fratello, mia sorella e mia madre
(cf. Mt 12, 46-50).


[1]* Cf. La Vida Sobrenatural, aprile 1933, pp. 217-225

91 bis “Est ergo vox illius Ecclesiae quae adventum Christi praecessit, quam synagogam, idest congregationem, appellamus. Quis, inquit, det te fratrem meum sugentem ubera matris meae? Et est sensus: tu qui modo es in sinu Patris, quis det ut homo efficiaris, et particeps ac consors naturae meae existens, frater meus appelleris?” (cf. Haimo d’Auxerre (Haymo Altissiodorensis) [attribuito un tempo a San Tommaso d’Aquino], Commento al Cantico dei Cantici (Salomon inspiratus), testo integrale latino e italiano, a cura di Max Anselmi, in: Candido Costa, Commento al Cantico dei Cantici, testo integrale latino e italiano, a cura di Max Anselmi Passionista, Edizioni CIPI, Roma 2005, pp. 643-817, cit. Capitolo 8, pp. 796-797).