2. In Spagna

2. In Spagna

Dopo aver trascorso alcuni giorni a Santander con i nostri Padri e in casa di una devota signora, dove andavamo a dormire, gli stessi Padri che ci avevano accolto al porto ci accompagnarono a Lezama (Bilbao), luogo della nostra prima residenza in Spagna. Di passaggio fummo a Deusto ed avemmo la soddisfazione di conoscere i buoni Padri di quella numerosa Comunità e alcune pie giovani. Diverse di esse si mostrarono molto desiderose di abbracciare la nostra vita, di aiutarci e favorirci; in modo speciale una signorina, chiamata Emilia Gutiérrez, penitente del Rev.do P. Clemente, il quale, per ordine del P. Generale, si occupava della nostra sistemazione.

Verso il primo rifugio provvisorio

Nel vedere quelle buone giovani così interessate alla fondazione, ci consolammo molto e riprendemmo coraggio che, con la grazia di Dio, l’opera sarebbe andata avanti. Avemmo anche la soddisfazione di conoscere e salutare le buone e molto caritatevoli religiose del Rifugio di Begoña, di visitare il santuario o basilica della santissima Vergine del luogo e di porre sotto la protezione di Maria, lì, ai suoi piedi benedetti, la fondazione in progetto.

Nel tragitto per Lezama salì sul treno un sacerdote che salutò il P. Clemente e poi noi con parole brevi e fredde, dando l’impressione di essere una persona non informata su chi eravamo noi e sulle intenzioni che ci movevano. Al di là di quel freddo e indifferente saluto, non ci rivolse una parola in più, nonostante che fosse seduto accanto a noi e che la ragione del suo viaggio non fosse che quella di venire ad accompagnarci nel viaggio. Lo venimmo a sapere quando scendemmo dal treno, vedendo che anche lui discese ed entrò con noi nella casa alla quale eravamo dirette. Anche qui a noi non parlò, ma si limitò a dire qualche frase al P. Clemente e poi se ne andò. Si chiamava Don Alejandro di Bilbao, un santo sacerdote, di quelli che parlano molto con Dio e poco con le creature. Era direttore spirituale della signorina Emilia e quindi era interessatissimo, come lei, alla fondazione. Ce lo disse poi il P. Clemente che rimase con noi per celebrare la santa Messa il giorno seguente. Più avanti dovrò tornare a parlare di questo degno ministro di Dio.

Arrivammo a Lezama il 7 febbraio 1916. Ci sistemammo in una casa, o conventino che, con la carità di diverse persone ed in particolare della citata signorina Emilia, i nostri Padri avevano fatto costruire accanto ad un eremo chiamato del Santo Cristo, che pensavano potesse servire come chiesa del convento.

Per la grandezza e il suo raccoglimento sarebbe potuta servire molto bene, ma era in pessime condizioni e il solo vederla, bastava per scoraggiare. Io fui la prima ad accorgermi dei lavori che sarebbero stati necessari per poterla trasformare in chiesa. Lo vidi quando dovetti preparare l’altare per la celebrazione del giorno seguente. Siccome il terreno che si trovava dietro l’eremo era più elevato del pavimento, sulla stessa parete all’interno c’era molta umidità, dovuta all’acqua che vi filtrava incessantemente, la quale, mescolandosi con la polvere e la sporcizia, aveva prodotto una specie di fango che ricopriva la mensa: dovetti toglierla con pala e scopa. Se questo era quello che si trovava sull’altare, figurarsi quello che c’era sul pavimento: sembrava una autentica stalla piena di immondizie. A toccare le immagini (la santissima Vergine e san Giovanni) che si trovavano ai lati del Crocifisso, c’era d’aver paura, per gli insetti e i ragni che vi si nascondevano dietro. Queste ed altre difficoltà non mi spaventavano: Dio mi dava molto coraggio; nulla mi abbatteva. In meno di un’ora tutto era pulito e sistemato al meglio che si poteva, per celebrarvi la prima Messa e continuare poi con tutto il mio impegno il riordino dell’eremo.

Tristi notizie da Lucca

Con tutto l’ardore desideravo la gloria di Dio. Quando ero occupata in cose che contribuivano alla sua gloria, o almeno speravo che vi dovessero contribuire, mi sentivo forte e capace di superare qualsiasi difficoltà e di soffrire ciò che il Signore mi avesse chiesto. Sofferenze a non finire la sua bontà le aveva già pronte per noi in Spagna e per le nostre consorelle di Lucca.

Proprio nei giorni del nostro arrivo in Spagna, la Madre Giuseppa stette in pericolo di morte. Nello stesso periodo, un’epidemia costrinse a letto la maggior parte di quella comunità. Cadde vittima, ma vittima gloriosa per un atto eroico compiuto, la Sorella Nazarena (della quale parlai quando presentai le mie consorelle di Lucca e spero che il lettore se lo ricordi). Nel vedere la Madre in punto di morte, lei offrì al Signore la propria vita e fu accettata, come si vede dalla lettera seguente della Madre Gemma. La trascrivo letteralmente e per intero, per la gloria di Dio e della buona vecchietta che compì un atto così eroico.

«Lucca, 26–2–1916.

Carissima Madre Maddalena, Sorella mia in Gesù, non so dirle quanta soddisfazione abbiamo provato nel leggere le sue lettere con notizie così buone e consolanti. È giusto rendere grazie al Signore che con noi si mostra veramente Padre, non abbandonando queste povere figlie sue quando le necessità sono più urgenti. Anche noi lo abbiamo provato con gli avvenimenti dolorosi di questo mese. Senta come ci siamo trovate.

Negli ultimi giorni di gennaio la nostra buona Madre si ammalò di broncopolmonite e fu veramente in punto di morte. La notte del 4 febbraio il medico, andandosene, ci disse tutto sfiduciato che non sarebbe arrivata all’indomani. Nello stesso tempo in otto eravamo a letto con l’influenza, tra le quali anch’io, la Madre Teresa, la Madre Gertrude e la Sorella Germana ecc. Si immagini quello che sarebbe successo. Io ero a letto con la febbre a quasi quaranta gradi e venni a sapere che la Madre era moribonda, data per spacciata dal medico. Che momenti dolorosi ho passato! Non riuscivo nemmeno a pregare. A Gesù dicevo solo: Signore, pensateci voi e basta.

Quel giorno, primo venerdì del mese, la Sorella Nazarena era di turno per la visita, perché stava benissimo.1 Tra una visita e l’altra nel coro della santissima Vergine si affacciava alla cella della Madre moribonda. Due o tre volte, quasi piangendo le disse: «Madre, prego molto Gesù perché al suo posto porti via me!». Quella stessa notte la Sorella Nazarena si ammalò e venne assalita dalla febbre. Il giorno dopo venne attaccata da una forte tosse. Si trattava di una broncopolmonite, e da lì a nove giorni l’avrebbe portata al cielo, mentre la Madre a partire da quel momento incominciò invece a migliorare.

Si vede chiaramente che Gesù ha accettato le preghiere di quella buona vecchietta tanto semplice, perché, credimi, ha fatto veramente una morte da santa. Beata lei! Ora è già in cielo a pregare per noi. Spero che abbiano ricevuto la partecipazione e avranno già fatto i suffragi per quell’anima benedetta. Continuo a pregare per lei e per noi, poiché ne abbiamo molto bisogno.

Abbiamo ricevuto una lettera anche dalle nostre consorelle dal Messico, benché con molto ritardo. Speriamo che il Signore aiuti anche loro in mezzo a tanti pericoli. Coraggio e fiducia sempre in Gesù, che è nostro vero Padre!

Ora, cara Sorella, voglio chiederle un favore. Abbia la bontà di tradurmi in italiano la lettera che accludo e che ho ricevuto tempo fa, ma capisco poco. Penso che lei sia in grado di inviarmi la traduzione e per questo la ringrazio in anticipo.

Sto preparando per lei le reliquie di Gemma, con l’iscrizione spagnola. Se sapesse quante grazie e miracoli fa Gemma! Non abbiamo il tempo sufficiente per preparare le reliquie che ci chiedono da tutte le parti. Ultimamente ha fatto un miracolo veramente grande in Bolivia. Si tratta di una signora tisica da sette anni, guarita improvvisamente quando già si trovava in punto di morte. Questo miracolo potrà servire per la causa, per avere tutti gli attestati medici… Vorrei dirle molte altre cose, ma lo farò un’altra volta, perché ora ho tanta fretta che quasi non riuscirà a capire quello che scrivo. Pazienza! Le notizie del noviziato e altre le lascio per un’altra occasione. La salutano tutte con affetto sincero, in particolare la Madre —che saluta la sua Rev.da Madre Presidente—, sua sorella Teresa e tutte.

Sua aff.ma Sorella Maria Gemma di Gesù».

Gesù non lascia mai i suoi senza il carattere distintivo con il quale il suo amore li segna: la sofferenza; e in modo particolare noi Passioniste, perché non vuole (e fa bene) che portiamo questo nome per niente. Tanto in Spagna come in Italia il nostro divino Sposo voleva che noi lo accompagnassimo nel dolore. Presto vedremo fino a che punto furono provate anche le nostre povere sorelle di Lucca. Era necessario chiedere forza, grazie e fortezza per tutte e chiederlo a Colui che soffrì tutta la sua vita per amor nostro. La fortezza ci era proprio necessaria per non scoraggiarci nell’opera iniziata in mezzo a tante difficoltà e contrarietà alle quali Dio piacque sottoporci già dal nostro arrivo a Lezama.

Le prime prove di amore

Il primo sacrificio e il più sentito dal mio povero cuore fu il dover trascorrere diversi mesi senza Gesù Sacramentato, cioè da febbraio fino al quattro di ottobre. Che vuoto durante tutto questo tempo! Monache di clausura, o di vita contemplativa, che passano la maggior parte dei loro giorni ai piedi dell’Eucaristia, o nelle sue vicinanze come le farfalle intorno alla fiamma!… Si sente un vuoto molto grande di non avere Gesù nel tabernacolo, perché Lui è un rifugio dove le nostre anime accorono come per istinto in cerca di fortezza, di riposo, di tranquillità e di pace.

Un’altra prova, forse non meno dolorosa di questa, fu il sapere che, contrariamente a quello che noi pensavamo, per la fondazione avevamo bisogno dell’approvazione del vescovo; questo influiva, ecco perché non ci diedero il permesso di conservare il Santissimo. Quando noi inoltrammo la domanda al riguardo, ci risposero che il vescovo era informato di tutto e che non si opponeva. Questo non voleva dire che avessimo l’approvazione, come forse all’inizio pensavamo fino al momento in cui ricevemmo la visita del vescovo e ci accorgemmo di esserci sbagliate. Le cause per le quali il prelato non dava l’approvazione erano due: una perché quel luogo isolato non gli sembrava conveniente per monache di clausura; come pure lo stato delle altre cose in cui si trovavano allora. La seconda causa era una certa legge concordataria secondo la quale si diceva che era proibito ammettere nuovi ordini religiosi nel paese. Quindi non c’era nessuna base sicura e noi ci trovavamo tutte sottosopra e senza poter far nulla.

Di questa difficoltà informammo l’Italia. Lo stesso Generale Silvio, quando ci venne a far visita a Lezama, ci promise che si sarebbe occupato direttamente del problema presso la Santa Sede. Per mezzo di lui, alla fine, ci fu permesso di conservare il Santissimo. Mentre si aspettava però il resto, passavano i mesi senza sapere come sarebbe andata a finire. La Madre Giuseppa, quando le scrivemmo sopra il caso, ci rispose: «A dirvi la verità, mi è sempre parso strano che non mi abbiate mai fatto menzione di una cosa così essenziale come è l’approvazione del vescovo in questa fondazione. Pregheremo, ma se non l’approva il vescovo, nemmeno il Papa l’approverà».

A tutto questo si aggiunse la notizia concernente le nostre tre consorelle che erano rimaste in Messico: si erano pentite di essere rimaste e desideravano esse pure venire quanto prima. Noi eravamo molto perplesse e non sapevamo quale scelta fare. Noi vedevamo che non era possibile riceverle qui, perché la fondazione non aveva alcuna base economica; non era questa l’intenzione di quelli che avevano chiamato noi e stavano sostenendo il nostro mantenimento, certamente molto ristretto: di conseguenza esse avrebbero dovuto fare ritorno in Italia. Per noi questo era molto doloroso, ripeto, ed eravamo disposte da parte nostra a qualsiasi sacrificio. Non dipendeva però da noi, bensì da quelli che facevano la fondazione, i quali dicevano che per il momento non potevano ammettere altre persone. Eravamo partite tutte insieme dallo stesso convento in Italia, con lo stesso scopo, in Messico avevamo condiviso lo stesso pane di dolore, sofferto e sperato insieme un avvenire migliore e ora vedevamo chiudersi per loro l’ideale che a noi si mostrava così attraente e vicino. O Gesù, a chi in un modo, a chi in un altro, quanti sacrifici chiedi alle anime che ti appartengono!

Arrivo di quelle che erano rimaste in Messico

Non si fermarono qui le sofferenze. In mare, durante il viaggio delle nostre consorelle dal Messico, la Madre Gabriella (che era ammalata di cuore) fu colpita da un attacco di paralisi che la mise in pericolo di morte e di dover essere gettata ai pesci. Poveretta, in che stato si trovava quando sbarcò a Santander! Venne deciso dai nostri Padri e Superiori che, prima di continuare il viaggio per l’Italia, si riposassero alcuni giorni con noi e venissero a Lezama. Quanto male rimasi quando vidi la Madre Gabriella, che era stata per me Madre e Maestra, lei sempre così attiva, allegra ed affettuosa! Ora si trovava in quello stato quasi senza potersi muovere, né parlare. Camminava trascinandosi e appoggiandosi, con le mani inerti, pallida e dolorante. Si faceva fatica a riconoscere in lei quella che tre mesi prima avevamo lasciato in piena salute.

Cosa siamo! Quanto fragile è la nostra salute e come fanno presto a perdere energia e forza anche i più robusti e forti! In questi casi noi abbiamo molto bisogno di essere sostenuti da Colui che è la fortezza del debole. O Gesù, resta sempre con noi. Ora più che mai, rimani con noi (te lo chiediamo come i discepoli di Emmaus) quando il dolore circonda e attacca il nostro povero essere e il giorno della vita sta per declinare. Resta con noi, o divino pellegrino, perché possiamo terminare in tua compagnia, o appoggiati a Te, la breve e incerta corsa della vita. Sei Tu la nostra fortezza, con Te non temiamo la notte, né i nostri nemici…

Quando vidi la mia povera Madre Gabriella, in quello stato che ho descritto, le corsi incontro, l’abbracciai, la baciai e piangemmo tutte e due. Me la presi in braccio come si fa con una bambina, perché la sua piccola statura e lo stato di malattia, in cui si trovava, le davano tutto il diritto di essere tenuta e amata come tale. Dovevo essere io la sua infermiera per più di otto mesi, vale a dire, fino a che il Signore se la portò con sé all’eterno riposo. La sua morte avvenne il 24 dicembre di quello stesso anno.

Quest’anima innocente (non conosceva il mondo perché era sempre vissuta in convento a partire dai sette anni) si addormentò tranquillamente nel Signore. Fu figlia di un miracolo, perché, come credo di avere già detto, era muta e ricevette la parola a Isola del Gransasso, sulla tomba del taumaturgo san Gabriele dell’Addolorata. Siamo sicure che questo amabile Santo ha condotto subito nel seno di Dio l’anima di questa sua miracolata e protetta.

Si intravvede la partenza da Lezama

Le altre due religiose che erano venute con lei dal Messico, per disposizione dei Superiori, come ho già accennato, erano partite per l’Italia.

Di conseguenza rimanevamo in Spagna: la Rev.da Madre Gertrude (Superiora), la Sorella Teresa e la sottoscritta, in più una giovanetta con vocazione che ci faceva da domestica in attesa di poter iniziare il postulandato canonico, perché le mancava la dovuta autorizzazione. Siamo rimasti in questa forma a Lezama più di due anni e mezzo. Si unirono a noi poi altre due o tre giovani, le quali, per la ragione detta, ugualmente non potevano fare il postulandato nonostante che, poco dopo la morte della Madre Gabriella, avessimo avuto la grande consolazione di ricevere l’approvazione della Santa Sede. Questo indulto l’aveva ottenuto a Roma il nostro Rev.mo P. Generale Silvio (al quale le Passioniste spagnole devono molto), e ci venne inviato attraverso il Nunzio di Sua Santità in Spagna. Nonostante tutto questo il vescovo era fermo nel non permetterci di iniziare canonicamente fino a che non fossimo andate a Deusto (dove ci troviamo ora), nella casa che i nostri Padri stavano costruendo a questo scopo. Diceva, come capivamo bene anche noi, che un convento di clausura in quel villaggio non era opportuno e che non solo non acconsentiva che fossimo restate lì, ma anche che ci obbligava ad andarcene quanto prima. Fu un bene per noi, perché in questo modo si diedero maggior premura quelli che dovevano risolvere la situazione che non era certo favorevole alle povere giovani che desideravano incominciare il noviziato.

Siccome questo tempo trascorso a Lezama contiene per la mia anima punti di discreto interesse, che hanno relazione con altri anni successivi, dedicherò il capitolo successivo a trattare della mia vita interiore nel periodo che restammo in quel luogo, e porrò fine a questo facendo notare di passaggio quanto diverse le cose, all’inizio della fondazione, si presentarono qui in Spagna rispetto al Messico.

Già prima di metter piede su questo suolo, i nostri cuori non avevano che dubbi e timori, perché nessuno ci dava le sicurezze e la protezione che in Messico avevamo, potrei quasi dire, fin troppo. La scarsità dei mezzi, la mancanza del permesso da parte dell’autorità competente, la malattia, la solitudine e l’isolamento in cui ci trovavamo senza l’appoggio di nessuno, la contrarietà e l’opposizione di alcuni, erano tutte circostanze che accompagnarono quegli inizi. Basi molto buone di sicuro e solide, dal punto di vista di Dio o dell’agire della provvidenza, per edificare e fondare una casa dedicata in modo speciale per accompagnare il divin Salvatore nei sacrifici e nelle sofferenze della sua vita mortale e della sua passione e morte sulla Croce. È sicurissimo che le opere di Dio su questa terra portano sempre il segno con il quale gli eletti saranno riconosciuti in cielo: la somiglianza con Gesù povero, umiliato, sacrificato… Noi nella fondazione abbiamo avuto questa somiglianza: per questo infatti potevamo rallegrarci e avere fondate speranze che «chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (cf. Sal 125, 5), secondo la promessa del Salvatore.

NELLA SPAGNA T’ASPETTO

Non t’aspetto tra giubili e contenti

Seguendomi all’odor dei dolci unguenti,

Di porpora o damasco rivestito,

Né gaudi d’un amor non mai sentito.

Né alla mensa divina dove il cuore

Dei due si fonde in celestiale amore,

Dove la luce e il sole ardente

Infiamma il cuore e illumina la mente.

No! non t’aspetto nella dolce pace

Dove l’amore intende, adora e tace,

Nel zeffiro gradito del boschetto

Dove intona il suo canto l’uccelletto.

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T’aspetto colla croce solitario

Alle falde del monte del Calvario

Con un serto di spine coronato,

Ricoperto d’obbrobri, insanguinato.

T’aspetto nella notte tenebrosa

Dove non vede l’alma niuna cosa,

Dei geli invernali entro i dolori

Dove l’amore non ammette fiori.

Sulla croce t’aspetto, pel peccato,

Come innocente Agnello ivi immolato.

T’aspetto lì, mio amor, o Maddalena,

Perché l’amor fa propria l’altrui pena.

Sopra i monti t’aspetto, solitario

Alla luce d’un triste funebrario,

Tra i rintocchi di morte ove natura

Morta a tutto riceve sepoltura.

Da questa morte sorgerà la vita

Vita da te fin qui giammai sentita

Che ti farà ridir: «non son più io

Quel che vive, in me vive sol Iddio».

Maria M.


1 Le Passioniste mantengono la pratica delle 33 visite a Gesù Sacramentato tutti i venerdì. Le fa una religiosa —eletta ogni volta con il sistema del sorteggio— in nome di tutta la Comunità. A questo allude la scrivente quando dice: «Era uscita per la visita».